L’immagine e il suo doppio
Da sempre gli uomini hanno percepito l’ombra come un doppio incorporeo del proprio essere e del mondo delle cose – una sorta di ponte tra la fisicità e l’immaginazione, tra il corpo e lo spirito, tra il vibile e l’invisibile.
E’ su questa ambiguità percettiva e concettuale che lavora Corneli. Quasi la “terra di mezzo” che ha tanto affascinato Pavel Aleksandrovič Florenskij, alla ricerca di quel “luogo” intermedio dello spazio vitale dell’uomo in cui si invera l’eterno rapporto tra gli opposti, tra realtà terrena e dimensione ultracoporea, finito e infinito, visibile e invisibile.
La magia silenziosa delle opere di Fabrizio Corneli è costruita dall’ombra, con la sua immaterialità grande protagonista della sua arte: è l’ombra che individua l’immagine, trasformando la memoria in presenza fisica, la fisicità in inconsistenza materica, l’immagine in visione.
E, al suo opposto, la luce, essenza del visibile, ideale limite estremo ed ultimo possibile al superamento della forma per toccare la sensazione pura; in senso traslato, una immaginaria mondanizzazione della species et perfectio corporum omnium est lux dell’estetica medievale. La luce è, d’altra parte, una delle più potenti dimostrazioni della grandezza della creazione umana: l’appropriazione della conoscenza, non più pensata come divina, è la nascita della città, degli orizzonti artificiali e dell’invenzione della sua riproducibilità: è la fine della notte della ragione per essere l’inizio dell’acquisizione e del disvelamento. è la condizione di un desiderio che attraverso il buio diviene frammento di apparizione.
Corneli ribalta la concezione comune del rapporto luce e ombra: nelle sue opere la luce è l’agente dell’apparizione, ma è l’ombra che evoca e definisce l’immagine. L’immateriale – l’ombra – diviene l’elemento di materializzazione della forma.
La tecnica scelta da Corneli per le sue opere, l’anamorfosi, è sapere antico, che unisce scienza e poesia. Frutto di un’attento studio matematico l’anamorfosi (ana–mórfosis, forma ricostruita) consente all’artista di formare l’immagine quasi magicamente, senza definirne i contorni nè plasmare fisicamente la materia, giocando su regole prospettiche e percettive che trasformano in figure piccolissimi intagli in sottili lastre di metallo..
Ed anche l’anamorfosi è anch’essa legata ad un concetto di ribaltamento, poichè – come scrive Jurgis Baltrusaitis – “inverte gli elementi e i principi della naturalità prospettica: proietta le forme fuor di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato o riflesse in uno specchio particolare. …. I visionari di ogni tempo hanno amato queste trasfigurazioni che rivelano il lato fantastico della natura. L’immagine si anima, si muove, cambia al minimo spostamento degli occhi. Ruota in un regno fatato dove tutte le cose diventano presenti e intangibili allo stesso tempo”.
Nel “regno fatato” di Fabrizio Corneli, è il vuoto che dà forma, è l’immateriale che, attraverso l’ombra, fa nascere sulla parete folletti, figure, complesse scene mitologiche o delicati erbari, con la sottile fascinazione dell’arte che, diceva Baudelaire, risiede nella sua capacità di destare meraviglia, stupore.
Lo stupore, dice Elemire Zolla, è lo stato felice dell’infanzia, e l’estetologo Elio Franzini ha posto lo stupore infantile all’origine dell’atteggiamento estetico: il pensiero estetico ha, dunque, come nucleo di partenza, come archetipo, lo stupore, che nel mondo occidentale post-kantiano è stato ucciso dalla spiegazione, quando questa ha preteso di sostituire lo stupore originario.
Ciò non è avvenuto nelle culture orientali, le quali non correggono, non “guariscono” lo stupore infantile con la spiegazione ma tendono piuttosto a valorizzarlo, ad esempio con l’esperienza dell’estasi o dello zen, che perfeziona lo stupore fino ad annullare la coscienza dell’io e dell’esserci.
In questa chiave, è ben comprensibile l’apprezzamento che le opere di Fabrizio Corneli hanno, ad esempio, in Giappone, dove ha tenuto numerose mostre (la prima personale nel 2000, a Kobe) e realizzato suggestive installazioni, come “Duetto”, opera a luce solare sulla parete della Sannomya Tower a Kobe.
Silvia Evangelisti, 2013