Ho sentito qualcuno dire “l’ha fatta un giapponese”
L’artista Fabrizio Corneli ci parla di ombra, luce, fotografia, sole e nuvole e insegne invisibili di hotel
a cura di Clara Lovisetti
Nato a Firenze nel 1958, Fabrizio Corneli si forma all’Accademia delle Belle Arti della sua città e poi al DAMS di Bologna. La sua prima mostra risale al 1979, quando partecipa alla collettiva “Le alternative del nuovo” allestita al Palazzo delle Esposizioni a Roma.
All’inizio degli anni ’90 si trasferisce a Colonia, in Germania, dove resta per cinque anni e inizia a lavorare con la luce naturale realizzando “Augenblick” (Momento), , presso il Parkplatz del Kölner Stadt-Anzeiger, in collaborazione con Stiftung der Cellitinnen. Seguirà nel 1997 la sua seconda installazione, un’opera site specific per Villa Celle, la sede della Collezione Gori che include lavori di artisti di fama internazionale.
Nel 2000 tiene la sua prima mostra personale presso la Galleria Mssohkan a Kobe, in Giappone, paese con cui ha una certa affinità culturale e dove allestirà numerose altre mostre e installazioni fra cui, nel 2007, l’opera a luce solare “Duetto” sulla parete della Sannomya Tower a Kobe.
Fabrizio Corneli è diventato ora un artista affermato a livello internazionale, con lavori installati in numerosi paesi europei ed asiatici. Prossimamente, fra le altre cose, ha in programma una mostra al Museo Archeologico di Francoforte per Luminale 2012, il grande festival della luce che avrà luogo il prossimo aprile, curata da Gisella Gellini in collaborazione con Evelyn Parusel e Peter Fasold, responsabile delle mostre per il museo.
Abbiamo così voluto incontrare Fabrizio Corneli nel suo laboratorio a Firenze, per una conversazione informale.
Da dove nasce questo tuo interesse per la luce?
Da sempre si può dire che lavoro con la luce, ho iniziato con la fotografia. La prima installazione, del 1979, era una sorta di meridiana, ricreata all’interno di una galleria d’arte fotografando una piramide in ore del giorno differenti e ristampando le immagini in modo da fare una sequenza che riproducesse esattamente la stessa situazione di luce in cui l’avevo fotografata, piccole piramidi comprese. Avevo poi montato le foto e le piramidi nella galleria, rispettando l’orientamento nord-sud, in modo che le ombre fotografate coincidessero con quelle proiettate da una lampadina e dalle piramidi. Si creava così una situazione abbastanza curiosa e paradossale perché i visitatori, che dovevano per forza passare davanti a quella lampadina, non vedevano scomparire le ombre ma continuavano a vederle esattamente dove erano.
Subito dopo, erano gli inizi degli anni ’80, decisi di usare materiali più solidi come i metalli per realizzare sagome che disegnassero ombre. Dopo i primi lavori, grandi oggetti che proiettavano piccole ombre, passai quasi istantaneamente ai piccoli oggetti per proiettare grandi ombre. Questo sia perché ottenevo maggiori effetti, sia per motivi pratici, di maneggevolezza e facilità di trasporto.
Ti definiresti un artista dell’ombra più che della luce?
In un certo senso sì, anche se poi non mi interessa tanto lo stacco netto fra luce e ombra ma tutta quella serie di sfumature, o situazioni intermedie, che si trovano fra la luce e l’ombra, perché giocando appunto sul rapporto luce/ombra ottengo una immagine non definita, al limite del leggibile, non facilmente percettibile ma comunque un soggetto comprensibile. Questo fa sì che, di primo acchito, non si veda niente, solo ombre. Ma poi, come se affiorasse da una specie di strano inconscio, si riesce leggere un’qualche cosa, che per qualcuno può essere anche diverso da quello che avevo pensato. A quel punto si crea una specie di rivelazione, che è molto difficile, se non impossibile direi, da cancellare.
E come si arriva a riconoscere l’immagine che hai “disegnato”?
Quello che faccio è fornire alla mente dell’osservatore una serie di indizi, in modo che la lettura dell’immagine non sia immediata, ma richieda un certo tempo, cosa che ai giorni nostri non avviene quasi mai in questo mondo di immagini istantanee, immediatamente riconoscibili. Oggi infatti la fotografia digitale ha quasi eliminato quello strano rapporto che vi era fra fotografo e immagine. Un tempo il fotografo creava e strutturava l’immagine, ora lo si fa con il Photoshop, ma è diverso. Lo sviluppo della foto era un momento emozionante, non eri mai certo del risultato, si provava una certa tensione che è quella che cerco di far rivivere con le mie opere.
Sviluppare una foto richiede un tempo e un luogo precisi: che importanza hanno questi fattori nelle tue opere?
Molta e la cosa è particolarmente evidente nei lavori con la luce solare, perché l’osservatore deve essere non solo in un determinato luogo ma arrivarci in un momento preciso, altrimenti l’immagine sarà incomprensibile, non si può vedere. Ne consegue che, oltre ad esserci il problema percettivo del riconoscimento, ce n’è anche uno squisitamente temporale, percui la rivelazione dell’immagine magari avviene solo in uno o due momenti dell’anno, quando solo allora sarà perfetta come l’ho pensata, con una vita e una figurazione proprie, che non controllo e non voglio controllare.
Quello che faccio in fondo è come gettare una pallina nella roulette, ovvero offro uno stimolo per innescare la fantasia nell’osservatore. Perchè credo che il ruolo dell’artista sia quello di far lavorare l’osservatore, presentandogli segni così minimi, appena accennati o banalmente astratti, per cui chi guarda è costretto a metterci del suo, a tirar fuori della farina dal suo sacco. In un certo senso come artista mi tiro indietro per fare sì che l’immagine prenda forma nella mente dell’osservatore.
Non si può dire che tue opere abbiano come caratteristica principale la “stabilità”…
Certo, siamo lontani dall’immagine definita, così rassicurante. Nei miei lavori più riusciti c’è sempre questo senso del vedere qualche cosa, ma di non averlo chiaro. Devo dire che il mio punto di arrivo ideale sarebbe un universo percettivo e concettuale dove non esiste un senso predefinito, stabile: lo vedo e non lo vedo.
Le tue opere sono pensate per essere permanenti o sono effimere?
Strutturalmente sono destinate a durare nel tempo, nel senso che sono realizzate con materiali estremamente solidi, con sorgenti luminose semplici, di quelle comunemente in commercio.
Concettualmente però sono effimere, perché la luce è effimera, scorre, soprattutto quella solare e questo fa sì che l’opera non sia mai la stessa. La luce del sole è molto simile a una sorgente, in ogni momento ricrea l’immagine.
Dopo la tua prima installazione, hai provato a ricreare questo dinamismo con la luce artificiale?
Sì, con una sorta di lampada-trenino che girava su dei binari. Un sistema con il quale ottenevo una serie di immagini create da lamine colpite dalla luce, che si susseguivano come in dissolvenza. Uno strano teatrino delle ombre che, nella sua semplicità, era molto emozionante, perché mi ricordava quando stampavo le foto, il momento in cui sulla carta immersa nell’acido si formava l’immagine e non sapevo che cosa sarebbe apparso, un processo che per me ha sempre avuto un po’ del miracoloso.
Ma persino le mie opere statiche possiedono un loro movimento. Ad esempio un mio esperimento con il rame, quasi una scatola con dei ritagli laterali e dentro un’alogena. La luce, uscendo, disegna una sagoma bianca ma crea anche tutta una serie di raggi rossi di cui non ho il controllo – perché rimbalzano sul rame – che escono dalle aperture. Non c’è nessun movimento, ma stranamente l’immagine possiede un suo dinamismo. Un effetto che si potrà vedere anche in un nuovo lavoro che sto realizzando per la mostra che farò il prossimo anno a Francoforte.
Tu che hai lavorato in paesi diversi come il Giappone, la Spagna e la Germania, che differenze culturali ci sono nei confronti della luce?
Ho lavorato in molti paesi ma la mia esperienza maggiore è con il Giappone e devo dire che in generale hanno luci pessime, usano ovunque le fluorescenti: hanno una luce artificiale bruttissima. Però, stranamente, hanno un ottimo rapporto con il mio lavoro, credo perché l’idea dell’appena accennato realizzato con un gesto singolo, segretamente elaborato, è una caratteristica dell’arte giapponese e in generale della cultura giapponese, penso per esempio alla calligrafia. Lo stesso il golf, che diventato è una specie di chiodo fisso, una mania giapponese, è basato sul colpo solo, singolo. Credo che questa caratteristica culturale abbia molto facilitato la lettura del mio lavoro da parte del pubblico giapponese. Anche in Francia ho trovato un’affinità, forse proprio perché i francesi hanno assorbito elegantemente la cultura orientale.
Qualche esempio di un tuo lavoro che ti ha emozionato particolarmente?
Un lavoro molto emozionante è stato proprio in Giappone, l’immagine è di due profili di uomo e di donna contrapposti: si chiama “Duetto” perché sembra che stiano cantando. Oppure che stiano per baciarsi o, addirittura, per avere un orgasmo. Il titolo è volutamente fuorviante perché in Oriente, pur avendo un’iconografia erotica molto realistica, è tabù far vedere un bacio o baciarsi in pubblico. Per me è stato emozionante innanzitutto perché la modalità di montaggio non consentiva rettifiche a posteriori, a meno di non smontare tutto e rifare tutto da capo. Poi perché, contrariamente al solito, non l’ho potuta montare direttamente in quanto, lo confesso, non sono in grado di starmene a 60 metri di altezza e lavorare….
Recentissimamente poi ho riproposto l’installazione che avevo fatto a Colonia, una donna che guarda il sole. Si trova sulle pareti di due grandi capannoni – al momento in parte inutilizzati – in una zona industriale che si trova all’incrocio fra l’autostrada A1 e la A11.
Qui l’emozione era data dal fatto che era la prima volta che montavo un lavoro in una situazione di quasi totale invisibilità, perché l’immagine appare attorno alle 11,30 e solo a quell’ora la si può vedere. Mi diverte pensare a questa figura che appare e scompare, che un giorno c’è ma il giorno dopo è diversa, perché cambiano le condizioni di luce, oppure, ancora più divertente, perché passano le nuvole.
Sì, però se la giornata è coperta la tua opera non si vede proprio! Hai mai pensato invece a una videoinstallazione?
In una visita al mio studio l’artista tedesco Bernard Blume, purtroppo da poco scomparso, amico e compagno di strada di Beuys, mi chiese in modo un poco provocatorio “ma perché non fai una bella proiezione?”, dicendomi in pratica che mi sarei risparmiato un sacco di complicazioni e avrei avuto lo stesso risultato. Li per lì rimasi senza risposta, era la prima volta che qualcuno mi faceva una domanda del genere, la trovavo talmente assurda … ma poi, ripensandoci, invece è curiosa e interessante e la mia risposta è che in qualche modo nei miei lavori l’osservatore è come se fosse all’interno del proiettore, è un piccolo personaggio che si avventura e fra la lente e la diapositiva, cercando di capire come andrà a finire con l’immagine sulla parete. Quello che voglio dire è che l’osservatore è parte dell’esperimento stesso e questo mi consente una vasta elaborazione del livello di riconoscibilità dell’immagine. Perché creando il meccanismo che disegna l’immagine e costringendo l’osservatore a far parte di questo meccanismo, lo spettatore non si concentra sull’immagine, ma sull’insieme, sulle ombre, la luce, gli oggetti. Si crea così una atmosfera che è molto diversa dalla immagine secca di un proiettore di un film o un video. Se si potesse fare lo stesso con una proiezione allora sì che farei una videoinstallazione. Hai letto “L’invenzione di Morel”…?
Ma soprattutto mi piace l’idea del lavoro che, anche se ha bisogno di una lampadina o della luce del sole, in qualche modo funziona indipendentemente dalla volontà e dal momento. Le videoprioezioni su larga scala al contrario sono legate di solito a un evento, voluto da qualcuno. Nel mio caso l’evento è il lavoro stesso, che magari prima è leggibile e poi, se passano le nuvole, sparisce. Non ha quell’effetto “festa” o “celebrazione” un po’ forzato che hanno di solito le proiezioni video sulle facciate.
Che cosa pensi dei led? Li usi?
Ho iniziato ad adoperarli e sono molto curioso di vederne gli sviluppi, perché in due anni la potenza del led singoli è triplicata e la loro luce, parlo di quella bianca, è molto più bella e stabile. Adesso ci sono dei led con temperature a partire da 2000 quindi simili alla incandescenza. Poi, visti i loro consumi bassissimi e la manutenzione pressochè inesistente, sono molto adatti per le mie installazioni che sono pensate per restare sempre accese.
Comunque ci tengo a precisare che uso i led senza nessun intento tecnologico, o di ricerca sul materiale. Li considero una sorgente di luce come un’altra, ai fini dell’effetto dell’opera. Devo dire però che a volte mi hanno risolto alcuni problemi di tipo pratico perché la loro luce non scalda. Ad esempio ho fatto alcuni lavori con uova di oca vere, trattate con resina. Una lampada a incandescenza, anche di soli 20 watt, li avrebbe rovinati. Con i led ho risolto il problema.
Hai mai lavorato con qualche architetto o un lighting designer?
Le mie esperienze migliori le ho avute con gli architetti, con cui ho lavorato spesso e anche molto bene. Ad esempio ho fatto due progetti su commissione per un hotel di un’importante catena di lusso. Il primo di questi riguardava una richiesta ben precisa dell’architetto, che voleva assolutamente due mappamondi da mettere nella hall. Ho vinto un po’ la mia perplessità e devo dire che sono riuscito a fare due oggetti che stanno davvero bene in quel contesto: aveva ragione lui.
Il secondo progetto era un’installazione sulla facciata dell’hotel, per la quale avevo avuto invece carta bianca. Alla fine ho optato per una scritta, l’insegna dell’hotel, bianca e minimalista con un effetto rilievo che, pur essendo quasi illeggibile, incuriosisce e attira l’attenzione. Sono passati già alcuni anni ma ancora qualcuno mi telefona per quella scritta, addirittura avevo scoperto che alcune guide portavano i turisti a vederla. Dato che abito nelle vicinanze, mi capita di passarci spesso davanti e una volta ho sentito un tipo dire “l’ha fatta un giapponese”!